Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano, di Francescomaria Tedesco (Meltemi, 2017), è un libro sul perché del Mediterraneo, e dunque dell’Italia, come Sud dell’Occidente. Ed è un libro sul perché del Meridione come Sud dell’Italia. Tedesco affronta il tema con strumenti storici, filosofici e di sociologia politica, spaziando dall’analisi delle rappresentazioni del Sud alla Questione Meridionale e da quelle “etniche” e orientaliste del Mediterraneo alla Primavera Araba.
Il filo rosso che accomuna questi ambiti è quello dei mediterraneismi: gli sguardi sul Sud. Sguardi molteplici, ma che tendono a svilupparsi attraverso due processi complementari, egualmente riduzionistici ed essenzializzanti.
Da un lato c’è il mediterraneismodi primo grado. Leggere e raccontare il Sud dal di fuori: da quel Nord Italia, quell’Europa, quell’intero Occidente che hanno spesso esotizzato e orientalizzato il Mediterraneo, vedendolo come l’Altro arcaico, arretrato o fuori dal tempo, per costruire sé stessi come moderni, avanzati e inseriti nel divenire storico. Dall’altro lato c’è un mediterraneismo di secondo grado: quello che interiorizza lo stereotipo precedente, ma rovesciandolo di segno, glorificando e sposando orgogliosamente la propria riconosciuta alterità, il proprio rivendicato arcaismo, al punto da intenderlo, talvolta, anche come modello alternativo alla democrazia contemporanea.
Per via di una spettacolare casualità, la copia recapitatami per questa recensione è giunta in circostanze che si potrebbero definire “mediterraneiste”. L’Editore l’aveva inviata al mio indirizzo in Italia. Da lì mi è stata rispedita dalla mia famiglia a Londra, dove risiedo. Il libro è così giunto al mio recapito all’interno di un tipico “pacco da giù” che conteneva, tra le altre prelibatezze, i limoni calabresi che da anni allietano la mia vita da emigrato.
Il caso non avrebbe potuto esprimersi in maniera più appropriata, perché il pacco dal Sud fa parte dell’immaginario del meridionale al Nord o dell’italiano all’estero. È il fulcro simbolico dei tormentoni tragici o comico-mediatici intorno ai dolori di chi ha voluto o dovuto studiare, lavorare e vivere ‘su’. Non a caso il simbolo dall’emotainment di video online come quelli di Casa Surace, il pacco da giù incarna le irriducibili differenze tra il Sud del nostro paese, lento, arretrato ed emotivo, e il Nord Italia o del mondo, dinamico, moderno e anaffettivo.
Lo and Behold è un documentario di Werner Herzog sull’impatto di Internet, della robotica e dell’Intelligenza Artificiale sul futuro delle società post-industriali di oggi. Herzog spazia dalla nascita di Internet alla società del data mining (l’estrazione di dati, ma anche abitudini di consumo e stile di vita dall’informazione prodotta dagli utenti delle tecnologie digitali); dall’Internet delle cose (che promette di rendere smart e connessi gli oggetti che usiamo) alla ricerca scientifica condotta in cooperazione tra scienziati e cittadini; dal rapporto tra hacking, potere e sorveglianza (si vedano le rivelazioni di Edward Snowden) agli scenari presenti e futuri di privacy panic e guerra di intelligence ; dalla vita su Marte delle multinazionali che si sostituiscono alle nazioni nella corsa allo spazio, alle macchine autoguidate e agli androidi che si sostituiranno all’umanità nel lavoro (e che cercheranno persino di giocare a calcio).
Il focus di Lo and Behold è sulle trasformazioni sociali, etiche, filosofiche che investiranno il concetto stesso di umanità in un orizzonte prossimo a venire. Il film esplora le tecnologie digitali, l’avvento di sistemi cibernetici e l’integrazione tra macchine e corpi – il cui apice sarà probabilmente il riconoscimento di forme avanzate di intelligenza artificiale – e il modo in cui probabilmente ridefiniranno il mondo che abbiamo conosciuto fino al giorno d’oggi. Herzog insegue questa matassa biotecnologica perdendosi in un glorioso zibaldone sulle parafilie e fobie tecnologiche del nostro presente, difficile da contenere dallo stesso regista.
Herzog si affida a interviste con figure chiave e guru come Bob Khan (co-ideatore dei protocolli TCP e IP), Elon Musk (fondatore di PayPal, Tesla Motors e dell’agenzia spaziale Space X) e Ted Nelson (teorico dell’intertesto). La passione di Herzog per l’oscuro e per l’ambiguo si riflette però parallelamente sulla scelta di mostrare soggetti marginalizzati o eccentrici, rimossi dal proscenio dei dibattiti futurologici più ottimistici. Si va dunque dagli Internet addict finiti in centri di recupero ai gamer costretti a indossare pannolini per non lasciare le postazioni di gioco (o deceduti in seguito a sedute troppo estenuanti); dalle vittime del trolling e del voyeurismo della morte che reputano Internet il nuovo anticristo ai sedicenti intolleranti alle radiazioni dei trasmettitori, isolatisi in comunità schermate dall’impatto dei ripetitori.
Lo and Behold si avvita intorno a queste contraddizioni finendo – a dispetto degli usuali capitoli in cui è suddiviso – con l’essere altamente asistematico. In un certo senso questo aiuta Herzog a dare un’idea della irrisolta e caotica proliferazione delle prospettive di questo periodo storico e delle trasformazioni che sta incubando. Fino alla domanda finale: “Internet sogna se stessa?”. Il risultato, probabilmente, non è tra i film più memorabili o in grado di lasciare il segno di Herzog, ma è interessante soprattutto per i discorsi e gli eventi che lo hanno circondato, e per come questi aspetti ci parlano soprattutto del suo regista.
Nelle ultime settimane una querelle ha circondato la figura letteraria di H. P. Lovecraft, scrittore di racconti, poesie, saggi e opere di critica letteraria, iniziatore del genere weird e di quello che sarebbe poi diventato noto come lo Cthulhu mythos.
La polemica ha avuto inizio con la decisione del World Fantasy Award (un premio letterario statunitense di letteratura fantastica) di non utilizzare più l’effige e il nome dell’autore di Providence, e di cercare un nuovo simbolo in grado di rappresentare la letteratura fantasy e horror senza utilizzare il volto di un singolo artista. In realtà la scelta è stata motivata soprattutto dal ripudio delle posizioni notoriamente razziste di Lovecraft ed è maturata anche in seguito a una petizione online. Nel 2011, la scrittrice americana di origini nigeriane Nnedi Okorafor aveva espresso imbarazzo nel ricevere come trofeo il busto di Lovecraft, capace di concepire lavori incentrati su un ovvio e dichiarato razzismo come la poesia “On the Creation of Niggers” (1912). Una precedente vincitrice del premio, Sofia Samatar, era già entrata nel merito della questione, sostenendo che pur amando l’opera di Lovecraft – e insegnandola – riteneva ormai criticabile l’utilizzo della sua immagine per un premio letterario internazionale. Lo scrittore Daniel José Older sarebbe andato oltre, iniziando una petizione contro l’utilizzo dell’effigie di Lovecraft in quanto autore “bigotto” e suggerendo in alternativa quella della scrittrice afroamericana Octavia Butler. Per Older, anche se Lovecraft lascia “un segno duraturo nella speculative fiction”, l’autore era anche “un razzista professato e dalle opinioni esecrabili” (fonte: Allison Flood su The Guardian). Le motivazioni di Older e di Okorafor sono chiare: dichiarare che l’uomo è figlio del suo tempo e contesto storico non basta e non è perdonabile. Non si può operare una distinzione radicale tra l’uomo e il suo testo.