The first videogame I ever played was the arcade game Donkey Kong. Released in 1981, it took us into a blocky-looking world where a carpenter in overalls raced along platforms and up ladders in a building site to rescue a lady kidnapped by a large ape. Its humble hero, Mario, went on to feature in scores of multi-million dollar grossing games, becoming an icon as popular as Mickey Mouse.
Having grown up in the 1980s, the new Super Mario Bros. Moviemeant more to me than the average fantasy animation film. Watching Mario and Donkey Kong have it out on a massive screen – at a resolution so high you can see a single hair or wrinkle on these crisp-looking, toy-like characters – was remarkable.
Yet, it felt like the mission of this movie wasn’t just about creating flashy, fleshy cartoon characters or trying to tell a compelling story – it was about doing justice to the feel of these videogames that span decades and are still enjoyed by millions around the world.
CARBONE, M. B. 2020. “THE LIGHTHOUSE”, SEGNOCINEMA, 223-224, MAGGIO-AGOSTO, PP. 44-45.
Dir. Robert Eggers. Scenegg.: Robert Eggers, Max Eggers. Fotogr.: Jarin Blaschke. Musiche: Mark Korven. Mont.: Louise Ford. Scenogr.: Craig Lathrop. Prod.: R. Teixeira, J. Van Hoy, R. Eggers, L. Sant' Anna, Y. Henley, per RT Features, Parts & Labor. Distr.: Universal Pictures Home Entertainment. Durata: 109 min. Stati Uniti d'America, Canada. Interpr.: Willem Dafoe (Thomas Wake), Robert Pattinson (Thomas Howard/Ephraim Winslow); Valeriia Karamän (la sirena).
Sinossi
Tardo XIX secolo, New England. Ephraim Winslow diviene assistente guardiano di un faro. L’impiego si rivela impegnativo per la fatica fisica e per l’incontentabile e severo custode, irascibile Thomas Wake, che gli impone ruoli umilianti e gli impedisce di accedere alla cabina superiore del faro. Sfinito e psicologicamente provato, Winslow si introduce nella cabina e ha allucinazioni di creature marine e visioni di amplessi mostruosi. Vessato da un gabbiano, lo uccide in uno scatto d’ira, contravvenendo alla credenza che in quegli animali si reincarnino le anime dei marinai morti. Lo stato psicologico di Winslow peggiora quando scopre che l’assistente che lo ha preceduto è impazzito e che una tempesta ha reso ormai impossibile abbandonare l’isola. Winslow rivela che Ehphraim non è il suo nome, ma quello di suo superiore, morto in un incidente che lui non ha impedito. La tempesta infuria e i due si abbandonano a risse violente e ambigue intimità, riducendosi a bere della trementina. Deciso ad abbandonare l’isola, Howard tenta di appropriarsi di una scialuppa.
Ambientato nel New England verso la fine dell’Ottocento e girato negli angusti spazi della torre di un faro e nei pressi della scogliera ad esso circostante, The Lighthouse prosegue una idea del cinema come attraversamento di topoi geografici, letterari e psicologici che Robert Eggers (che inizia la sua carriera come designer e regista teatrale), aveva già esplorato nell’acclamato The VVitch (2015). Come nella precedente opera, Eggers punta a ricreare un’epoca attraverso un testo che è quasi un costume o historical drama, girando il film in 35 millimetri su una vera isola in Nova Scotia. Eggers utilizza costumi d’epoca e strizza l’occhio, nel frattempo, all’espressionismo tedesco e al fantastico di genere della Universal dei Trenta e dei Quaranta.
L’ambientazione è però più letteraria che puramente storica: The Lighthouse è un film in cui i riferimenti iconografici e letterari e il cui stile narrativo e di interpellazione dello spettatore riconducono decisamente a una certa letteratura fantastica. Il soggetto richiama esplicitamente un’opera incompiuta di Edgar Allan Poe dallo stesso titolo; tuttavia, si innesta almeno altrettanto saldamente sull’immaginario associato al Solitario di Providence, al meno noto William Hope Hodgson e ad altri scrittori, oltre che a temi oceanico-orrorifici più ampi, cari alla corrente del weird, dal mito greco alle leggende di Davy Jones. Di questa tradizione Eggers cattura anche le apparizioni del tentacolo, significante del mostruoso e tramite verso un elemento marino che è brodo di coltura teratologico. Coerentemente, innerva il piano dell’enunciazione tra il sovrannaturale e il possibile delirio psicologico, a volte attraverso sguardi in macchina che sembrano volersi fare degli equivalenti degli effetti di senso ricercati dalla scrittura in prima persona, spesso impiegata in quella corrente letteraria.
Il New England marittimo di The Lighthouse– dopo quello rurale di The VVitch – è del resto un cronotopo di cui Eggers è un legittimo Caronte, essendovi nato e cresciuto, come prima anche Poe e Lovecraft. A questo elemento e a tali riferimenti Eggers si lega attraverso vari piani. Su quello verbale, Eggers dà vita a un mondo folklorico deragliato, facendo parlare Thomas Wake come il guardiano psicotico di un un’isola di follia hodgsoniana. Imbevendo un Willem Dafoe dalla invidiabile performance di diari e note d’epoca, ne ottiene così una voce capace di attraversare registri ora ieratici e ora comici. Tra secchi scatti d’ira e ininterrotte litanie di oscure maledizioni da marinai, Wake è lupo di mare burbero o anziano imbelle, folle invasato o Poseidone.
L’atmosfera generalmente paranoica è intramezzata occasionalmente da spunti tragicomici, anche se è sostenuta da una continua suspense, ottenuta grazie alla dimensione auditiva e dalle scene in interni del faro, rese particolarmente opprimenti dal formato di ripresa. Ligio al genere, Eggers è nel complesso reticente nel visualizzare la mostruosità, ma la esprime con potenza in misurati affondi attraverso i quali Howard – tramite principale con lo spettatore – abbandona progressivamente l’orbita della ragione, finendo teso tra residua incredulità e delirio.
Di una certa ricezione di HPL et Cie Eggers cattura ed esplora anche certe visioni ambigue, potenzialmente tossiche, tradizionalmente sessuofobiche, eppure qui tendenti a rappresentazioni del mostruoso che non si accontentano di restare metafore visive degli organi sessuali, ma diventano sessualmente esplicite ed ipertrofiche. Eggers tratta la materia del weird – la sua irruzione nell’ordinario, la consegna di chi lo riceve alla follia, il crinale sottile tra il grottesco e il ridicolo – sostenuto da un mestiere registico e da interpretazioni attoriali che gli consentono di varcare queste soglie a piacimento – e non, come in altri tentativi – di adattare il genere letterario al medium audiovisivo in modo formulaico o involontariamente umoristico.
The Lighthouse è come una scialuppa filmica che conduce dalla scogliera del confine a un mare nero e talmente allucinatorio da restare in ultimo inavvicinabile. Si tratta di un testo che può senz’altro parlare anche a un pubblico più ampio, a cui presenta quello che potrebbe sembrare quasi come un incrocio tra un kammerspielfilm psicoanalitico e un horror di matrice nostalgica. Tuttavia, il suo pubblico modello è forse un altro: quello a cui solo raramente il mezzo cinematografico ha concesso non una lettura del reale, bensì, al pari della letteratura a cui si rifà Eggers, una sua lacerazione, ottenuta increspandovi delle crepe e poi strappandone il velo, rendendo cosi possibile il rispecchiarsi in fantasiosi abissi, in grado di lasciarci, inorriditi ed estatici, di fronte alla loro orripilante bizzarria.
Questo articolo è stato pubblicato su Segnocinema n. 223-224 (maggio-agosto 2020).
Carbone, M. B. 2020. “The Lighthouse”, Segnocinema, 223-224, maggio-agosto, pp. 44-45.