Vol. 3 – ‘Idea Software e Lupo Alberto: the Videogame (Amiga, 1990). Intervista a Antonio Farina’ (Segnocinema 235, maggio-giugno 2022)
Nel 1990 Antonio Farina, manager della Idea Software, di sede a Casciago (Varese), avvia la produzione di Lupo Alberto: the Videogame per gli home computer Commodore 64 e Amiga. Una delle prime software house italiane, Idea Software nasce nel 1990 (e dal 1989 come S.C., Software Copyright), dall’esperienza di Leader, che si era occupata dal 1984 di acquisire licenze su prodotti esteri da distribuire in Italia. Con Idea inizia lo sviluppo di videogiochi originali per l’Italia e l’estero. Antonio Farina cura per Idea la produzione di giochi tratti da fumetti come Lupo Alberto, Cattivik e Sturmtruppen, che giocano su un doppio binario: avere successo in Italia e puntare all’estero. Ne parliamo a partire da Lupo Alberto con Antonio Farina, pioniere e veterano nella produzione di giochi in Italia, manager per Idea e poi fondatore di Graffiti e Milestone (una delle più grandi realtà produttive del gioco in Italia) e CEO delle più recenti esperienze di indie development Reludo e Rortos.
Caro Antonio, come nasce nel 1990 Lupo Alberto, un platform game cartoonesco ispirato a dei personaggi di grande riconoscibilità in Italia?
Ai tempi di L.A. Idea era una piccola realtà in cui ero un factotum. Coordinavo programmatori, grafici e musicisti attraverso scambi rocamboleschi di floppy disk via corriere! Solitamente valutavo delle tech demo interessanti inviate da programmatori e ci creavo intorno un prodotto, coordinando design e produzione. Nel caso di L.A. avevo una simpatia personale per il personaggio, in quel periodo i prodotti su licenza andavano forte e questo fumetto era popolarissimo in Italia. Non molto all’estero, ma se avessimo intanto recuperato i costi da noi avremmo poi potuto sperare che questo ‘platform carino’ avrebbe magari fruttato un successo extra in quanto tale anche fuori dai confini nazionali, dunque al di là della riconoscibilità del personaggio. Quindi abbiamo approcciato Silver con il progetto e a lui piacque l’idea. Ritenni che un gioco in stile Super Mario Bros. sarebbe stato un genere ideale per puntare a un’audience di ragazzi per gli home computer dell’epoca, e quindi ho messo insieme competenze tecniche e maestranze per realizzarlo.
Il fumetto di Lupo Alberto è di grande successo in Italia. In un altro gioco di Idea, Bomber Bob, si può ascoltare una canzone di Francesco Salvi! Molte aziende all’epoca puntavano un po’ sul mercato nazionale e un po’ sull’estero, nazionalizzando o denazionalizzando le produzioni…
L’articolo completo è disponibile su Segnocinema n. 235.
Spiegaci come si sviluppa questa produzione, un’avventura grafica che gode ancora di un buon riscontro tra gli storici e appassionati del genere e con cui Simulmondo ha puntato anche al mercato estero.
L’ipotesi di produzione nacque con Tiziano Sclavi e Decio Canzio intorno al 1991 quando mi furono presentati da Sergio Bonelli a Milano, facendo seguito al mio interesse a trarre dei giochi da icone superstoriche del fumetto come Diabolik delle sorelle Giussani e Tex e l’allora recente fenomeno Dylan Dog di Bonelli (in seguito anche Spider-Man). Tiziano fu entusiasta e trovammo molti punti di contatto: anche lui era un fanatico dell’hard-boiled, e immaginammo Dylan come un’icona alla Bogart del Falcone maltese (1941).
Progettammo due giochi: il primo, Gli Uccisori (1992),sarebbe stato un arcade/action ispirato a giochi come Prince of Persia (J. Mechner 1989) o Impossible Mission(D. Caswell/Epyx 1984). Il secondo Simul-Dylan,Attraverso lo Specchio (1993),sarebbe stato un adventurepunta e clicca come Borrowed Time(Activision 1984) e Déja-vù per Amiga (1986). Il riferimento era al classico di Lewis Carroll, oltre che all’albo del fumetto dallo stesso titolo, anche se la storia del gioco è solo vagamente ispirata a quell’episodio, nonché a Quando la città dorme. Tiziano avrebbe prodotto due raccontini inediti, destinati a diventare mini albi di quattro pagine da includere nel packaging (sarebbero diventati pezzi da collezionismo). La produzione di ALS sarebbe andata avanti per più di un anno.
Quali sono state le peculiarità o le problematiche del contesto di produzione e distribuzione?
Vol. 1 – Schiaffi, fagioli e crowdfunding. Intervista a Gerardo Verna di Trinity Team e Slaps And Beans
Una rivelazione nel panorama italiano – in un mercato fatica a tenere il passo imposto da industrie internazionalmente più affermate, ma al contempo caratterizzato da numerosi elementi di interesse, talenti e progetti di rilevanza creativa e intellettuale – Slaps And Beans è un gioco dall’appeal nostalgico e un successo commerciale e di critica anche all’estero e che sfida alcuni limiti strutturali del contesto di produzione nostrano. Ne parliamo con Gerardo Verna.
Gerardo, non è facile trovare giochi italiani con un successo di mercato e di pubblico in Italia e all’estero. Parlaci brevemente del tuo profilo di designer e della storia di Slaps And Beans.
G: Ho iniziato a lavorare, dal 2005, sviluppando prodotti didattici. Nel 2009, quando ancora gli engine come Unity non erano diffusi, ho sviluppato il mio primo motore grafico in 3D: lo utilizzai nel 2010 per il mio primo gioco, The Invisible Hand, un serious game sul commercio equo e solidale. L’avvento di Unity bloccò lo sviluppo del mio engine, la cui manutenzione sarebbe stata economicamente insostenibile. Dal 2011 ho iniziato a lavorare per la società TiconBlu di Ivan Venturi allo sviluppo del videogioco ispirato al teologo e inquisitore spagnolo Nicolas Eymerich, una avventura grafica tradotta e doppiata in latino. In quegli anni nacque anche l’idea del videogioco su Bud Spencer e Terence Hill, ma ogni tentativo di contattare gli due attori fallì e io decisi di tornare a fare il programmatore. La svolta avvenne a Ottobre 2015 con il lancio di una Game Jam a tema Spaghetti Western. Era chiaramente un segno. Nacque così Schiaffi e Fagioli, prototipo non ufficiale di Slaps And Beans, che attirò l’attenzione di Bud Spencer. La collaborazione con la famiglia Pedersoli portò al successo della campagna Kickstarter e alla costituzione di Trinity Team nel 2017.
Ci sono dei problemi strutturali delle industrie creative nel contesto italiano? Quali sono per te le loro peculiarità e qual è stata la tua esperienza con Trinity Team?
CARBONE, M. B. 2020. “THE LIGHTHOUSE”, SEGNOCINEMA, 223-224, MAGGIO-AGOSTO, PP. 44-45.
Dir. Robert Eggers. Scenegg.: Robert Eggers, Max Eggers. Fotogr.: Jarin Blaschke. Musiche: Mark Korven. Mont.: Louise Ford. Scenogr.: Craig Lathrop. Prod.: R. Teixeira, J. Van Hoy, R. Eggers, L. Sant' Anna, Y. Henley, per RT Features, Parts & Labor. Distr.: Universal Pictures Home Entertainment. Durata: 109 min. Stati Uniti d'America, Canada. Interpr.: Willem Dafoe (Thomas Wake), Robert Pattinson (Thomas Howard/Ephraim Winslow); Valeriia Karamän (la sirena).
Sinossi
Tardo XIX secolo, New England. Ephraim Winslow diviene assistente guardiano di un faro. L’impiego si rivela impegnativo per la fatica fisica e per l’incontentabile e severo custode, irascibile Thomas Wake, che gli impone ruoli umilianti e gli impedisce di accedere alla cabina superiore del faro. Sfinito e psicologicamente provato, Winslow si introduce nella cabina e ha allucinazioni di creature marine e visioni di amplessi mostruosi. Vessato da un gabbiano, lo uccide in uno scatto d’ira, contravvenendo alla credenza che in quegli animali si reincarnino le anime dei marinai morti. Lo stato psicologico di Winslow peggiora quando scopre che l’assistente che lo ha preceduto è impazzito e che una tempesta ha reso ormai impossibile abbandonare l’isola. Winslow rivela che Ehphraim non è il suo nome, ma quello di suo superiore, morto in un incidente che lui non ha impedito. La tempesta infuria e i due si abbandonano a risse violente e ambigue intimità, riducendosi a bere della trementina. Deciso ad abbandonare l’isola, Howard tenta di appropriarsi di una scialuppa.
Ambientato nel New England verso la fine dell’Ottocento e girato negli angusti spazi della torre di un faro e nei pressi della scogliera ad esso circostante, The Lighthouse prosegue una idea del cinema come attraversamento di topoi geografici, letterari e psicologici che Robert Eggers (che inizia la sua carriera come designer e regista teatrale), aveva già esplorato nell’acclamato The VVitch (2015). Come nella precedente opera, Eggers punta a ricreare un’epoca attraverso un testo che è quasi un costume o historical drama, girando il film in 35 millimetri su una vera isola in Nova Scotia. Eggers utilizza costumi d’epoca e strizza l’occhio, nel frattempo, all’espressionismo tedesco e al fantastico di genere della Universal dei Trenta e dei Quaranta.
L’ambientazione è però più letteraria che puramente storica: The Lighthouse è un film in cui i riferimenti iconografici e letterari e il cui stile narrativo e di interpellazione dello spettatore riconducono decisamente a una certa letteratura fantastica. Il soggetto richiama esplicitamente un’opera incompiuta di Edgar Allan Poe dallo stesso titolo; tuttavia, si innesta almeno altrettanto saldamente sull’immaginario associato al Solitario di Providence, al meno noto William Hope Hodgson e ad altri scrittori, oltre che a temi oceanico-orrorifici più ampi, cari alla corrente del weird, dal mito greco alle leggende di Davy Jones. Di questa tradizione Eggers cattura anche le apparizioni del tentacolo, significante del mostruoso e tramite verso un elemento marino che è brodo di coltura teratologico. Coerentemente, innerva il piano dell’enunciazione tra il sovrannaturale e il possibile delirio psicologico, a volte attraverso sguardi in macchina che sembrano volersi fare degli equivalenti degli effetti di senso ricercati dalla scrittura in prima persona, spesso impiegata in quella corrente letteraria.
Il New England marittimo di The Lighthouse– dopo quello rurale di The VVitch – è del resto un cronotopo di cui Eggers è un legittimo Caronte, essendovi nato e cresciuto, come prima anche Poe e Lovecraft. A questo elemento e a tali riferimenti Eggers si lega attraverso vari piani. Su quello verbale, Eggers dà vita a un mondo folklorico deragliato, facendo parlare Thomas Wake come il guardiano psicotico di un un’isola di follia hodgsoniana. Imbevendo un Willem Dafoe dalla invidiabile performance di diari e note d’epoca, ne ottiene così una voce capace di attraversare registri ora ieratici e ora comici. Tra secchi scatti d’ira e ininterrotte litanie di oscure maledizioni da marinai, Wake è lupo di mare burbero o anziano imbelle, folle invasato o Poseidone.
L’atmosfera generalmente paranoica è intramezzata occasionalmente da spunti tragicomici, anche se è sostenuta da una continua suspense, ottenuta grazie alla dimensione auditiva e dalle scene in interni del faro, rese particolarmente opprimenti dal formato di ripresa. Ligio al genere, Eggers è nel complesso reticente nel visualizzare la mostruosità, ma la esprime con potenza in misurati affondi attraverso i quali Howard – tramite principale con lo spettatore – abbandona progressivamente l’orbita della ragione, finendo teso tra residua incredulità e delirio.
Di una certa ricezione di HPL et Cie Eggers cattura ed esplora anche certe visioni ambigue, potenzialmente tossiche, tradizionalmente sessuofobiche, eppure qui tendenti a rappresentazioni del mostruoso che non si accontentano di restare metafore visive degli organi sessuali, ma diventano sessualmente esplicite ed ipertrofiche. Eggers tratta la materia del weird – la sua irruzione nell’ordinario, la consegna di chi lo riceve alla follia, il crinale sottile tra il grottesco e il ridicolo – sostenuto da un mestiere registico e da interpretazioni attoriali che gli consentono di varcare queste soglie a piacimento – e non, come in altri tentativi – di adattare il genere letterario al medium audiovisivo in modo formulaico o involontariamente umoristico.
The Lighthouse è come una scialuppa filmica che conduce dalla scogliera del confine a un mare nero e talmente allucinatorio da restare in ultimo inavvicinabile. Si tratta di un testo che può senz’altro parlare anche a un pubblico più ampio, a cui presenta quello che potrebbe sembrare quasi come un incrocio tra un kammerspielfilm psicoanalitico e un horror di matrice nostalgica. Tuttavia, il suo pubblico modello è forse un altro: quello a cui solo raramente il mezzo cinematografico ha concesso non una lettura del reale, bensì, al pari della letteratura a cui si rifà Eggers, una sua lacerazione, ottenuta increspandovi delle crepe e poi strappandone il velo, rendendo cosi possibile il rispecchiarsi in fantasiosi abissi, in grado di lasciarci, inorriditi ed estatici, di fronte alla loro orripilante bizzarria.
Questo articolo è stato pubblicato su Segnocinema n. 223-224 (maggio-agosto 2020).
Carbone, M. B. 2020. “The Lighthouse”, Segnocinema, 223-224, maggio-agosto, pp. 44-45.